Lo sguardo degli altri

 

 

Quando gareggiavo c'era un parametro infallibile per darmi la tara della mia condizione fisica, più della bilancia, più dello specchio: gli sguardi degli altri. Quando mi sentivo osservato, quando si voltavano per guardarmi, quando bisbigliavano, quello era il segno più tangibile che era tutto come doveva essere. Se poi riuscivo a captare qualche "Che schifo", vuol dire che era tutto perfetto.

 

Ora, per me era qualcosa che mi scivolava addosso, ma per un'altra persona potrebbe essere un grosso problema. Per una persona con problemi di peso, per esempio. 

Tutti inconsciamente soggiaciamo allo sguardo dell'altro. È quello il sistema attraverso cui capiamo se andiamo bene oppure no. Nell'adolescente questo è un passaggio molto delicato, perché quello sguardo gli restituisce tre classi di risposte: estetiche (ti piaccio?), sociali (sono degno di essere vostro amico?), di personalità (valgo qualcosa?).

 

Se le risposte sono negative, la controrisposta del ragazzo può essere riversata sul cibo, che può diventare uno strumento su cui avventarsi con rabbia per riempire un vuoto oppure qualcosa da evitare per punirsi. 

 

Così possono nascere l'obesità e i dca: "Se gli altri non mi vogliono (bene), non mi importa di volermi bene". 

Un paio di anni fa, durante una discussione alla Camera, ci fu l'intervento di un deputato, che da ex obeso raccontò di essere stato lui stesso colpito dal fat-shaming. Parlò proprio del peso dello sguardo degli altri:

 

"Non tutti ci scherzano. No, ci si chiude in casa, magari, si finisce in cucina a rubare cibo, si seppellisce la derisione. Come? Mangiando di più, ancora e ancora e ancora. Il cibo come anestesia, come stordimento, per non sentirli più, per non sentirsi più, perdersi lì dentro perché nessuno ci trovi, tanto nessuno ci cerca, se non con lo sguardo"

 

Capite che a quel punto "Devi fare la dieta" è la risposta superficiale a un problema profondo.

 

L'obesità si cura guardando dentro, non fuori. 

 

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