L'anoressia di Jeremy

 

 

Jeremy Gillitzer ha una storia che merita di essere raccontata. Il padre biologico sparì dopo la sua nascita, e sua madre sposò un falegname che lo adottò. «Il rapporto con il mio patrigno è stato orribile, mi ha trattato come fossi merda. Ha agito come se fossi un intruso in casa sua», dice oggi Jeremy, che al tempo era un ragazzo grassoccio, il che lo rendeva un bersaglio frequente per le ire del suo patrigno. 

 

«Non perdeva occasione per dirmi che ero grasso o che dovevo perdere peso». Come se ciò non bastasse, Jeremy stava attraversando la pubertà e doveva affrontare il fatto di essere omosessuale. Il solo pensare a come avrebbe reagito il suo patrigno, lo fece inorridire. Imparò a vergognarsi di sé, senza sapere il perché.

 

Poi, a dodici anni scoprì un’unica soluzione per i due problemi: la fame. «Serviva a due scopi: dimagrire e non pensare al fatto di essere omosessuale. Quando sei malnutrito non ti senti sessuale, quindi non devi preoccuparti di essere gay o etero».

 

Pochi mesi dopo era anoressico. 

 

Cominciò il suo tour negli ospedali. I medici tentarono un approccio carota-bastone: gli fu permesso di mangiare tutto ciò che voleva, ma la televisione, il telefono e i privilegi in visita gli sarebbero stati portati via se non avesse raggiunto gli obiettivi. Jeremy allora riacquistò il suo peso e dopo un mese venne dimesso. 

 

Ma un anno dopo era tornato alle sue abitudini alimentari. A quattordici anni fu sorpreso a rubare lassativi alla farmacia locale, mentre ingoiava pillole a piene mani. «Vomitavo, mi alzavo, giravo intorno, mi sedevo e riandavo in bagno e vomitare. A volte perdevo anche tre chili in un’ora prendendo quelle pillole. Era tutta acqua».

 

 

Die Ana

Jeremy imparò ad attuare il purging quando durante uno dei tanti ricoveri incontrò una paziente più grande di lui, Diane.

 

Diane, era denutrita da così tanto tempo che portava la dentiera nonostante avesse solo ventotto anni. «Mi ha insegnato a bere molta acqua e a mangiare alcuni alimenti che sono più facili da vomitare, come il riso o i cibi liquidi o semiliquidi: latte, yogurt, minestre ecc.». Al fine di garantire che non avrebbe vomitato il suo cibo, dopo ogni pasto gli infermieri lo confinarono su una sedia geriatrica per ore.

Quando non riuscì a salire di peso o si agitava, fu inviato in una cella in isolamento, con poco più di un materasso nudo. Jeremy prese a vomitare in segno di protesta. «Il personale mi guardava stupito. Ma dopo un po’ si abituarono e mi diedero uno straccio e spray disinfettante per pulire». Escogitò modi sempre più elaborati per nascondere il suo vomito agli infermieri, come gettare tutto in grandi tazze e poi occultarle, sia nella sala giorno che nella sua stanza. «Una volta vomitai in lavatrice, avviando subito dopo il ciclo di risciacquo». 

 

Una valutazione psichiatrica a quel tempo rivelò la profondità di sconforto di Jeremy. «Il paziente è ossessionato da pensieri di suicidio», si legge nei referti. «Ha tentato di impiccarsi prima con un asciugamano e poi con una cintura [...] In passato, si è tagliato la punta delle dita con lame di rasoio perché si sentiva intorpidito e aveva bisogno di sapere che avrebbe potuto sentire qualcosa».

 

 

Body “binging”

Poi accadde qualcosa di straordinario: Jeremy decise di rivelare alla sua famiglia e ai suoi amici la propria condizione, e gradualmente si riprese. A poco a poco interruppe il binging & purging.

 

Liberato dei suoi sintomi, si iscrisse all’Università. Iniziò ad andare in palestra e a praticare body building. Sempre più seriamente. Prese a riversarvi lo stesso rigore che aveva utilizzato quando si affamava. Ottenne un fisico di tutto riguardo, trovò lavoro come modello ed ebbe dei cameo in alcuni film. 

Ma nel 2004, tutto tornò a crollare. Il rapporto con il suo primo e unico fidanzato di lunga data finì in un torrente di gelosia e di sentimenti feriti. Poi sua madre si ammalò gravemente, e lui stesso subì due incidenti stradali nello stesso mese. 

 

Sopraffatto, Jeremy riprese a trovare conforto nella sua vecchia routine. «Il purging allevia l’ansia», dice.

 

E tornò preda del suo disordine alimentare. 

Ricominciò i suoi allenamenti estenuanti, e solo cinque giorni dopo si trovò a corto di fiato dopo la seduta di spinning, con le dita delle mani che diventavano blu. Un amico medico lo visitò e gli suggerì di andare in ospedale, ma Jeremy rifiutò. Bevve del succo e si sentì meglio. Come se nulla fosse successo, più tardi quella sera stessa ripeté il suo rituale: binging & purging. Era deperito paurosamente. Tant’è che il gestore della palestra in cui si allenava gli chiese gentilmente di smettere di frequentare il suo locale fino a quando non fosse stato più sano.

Anche se smise gli allenamenti, Jeremy continuò a perdere peso. Arrivò a 48 chili, poi a 46. «Due chili ancora, e poi sarò felice», scrisse sul suo blog. Due settimane più tardi centrò l’obiettivo: 44 chili.

 

Ma non era nemmeno lontanamente felice: «Ho i capelli che cadono. Le gengive si stanno ritirando. Il mio sistema riproduttivo è in sospeso... o morto. Sono gobbo, perché i miei muscoli non possono sostenere il mio collo. Sono molto stitico. Ho una piaga da decubito sul coccige. Sembro una vecchia signora di ottanta anni. Eppure ne ho solo trentacinque».

 

Nonostante ciò rifiutò di tornare in trattamento. «Se qualcuno avesse sperimentato che cosa ho passato negli ospedali, capirebbe». 

 

Un giorno ideale per i pescibanana

Diciassette gradi fuori, e silenzio dentro. Alle sei e trentaquattro di un martedì mattina. Jeremy si alzò. Fece colazione. Si preparò. Guardò fuori. Sempre diciassette gradi. Poi guardò dentro. Sempre silenzio. Prese il suo diario e ci scrisse su: «Vorrei solo parlare con qualcuno». Poi andò nella stanza dei genitori. Dormivano. Suo padre non aveva mai prestato attenzione al fatto che la madre non si preoccupasse. Prese il necessario. Mise tutto nello zaino. Scese le scale. E uscì dall’indifferenza di dentro per immergersi in quella di fuori. Arrivò a scuola in ritardo quella mattina, e gli fu chiesto di recarsi in segreteria per avere un permesso. Jeremy guardò fuori i diciassette gradi, abbassò lo sguardo, si girò e uscì dalla classe senza dire una parola. Avrebbe voluto solo parlare. 

Andò in segreteria, prese il permesso e ritornò con un’amica per mano. Attraversò la classe, camminando piano tra le fila dei banchi. A metà, rallentò. Guardò fuori. Niente di nuovo. Sempre diciassette gradi. Poi riprese a camminare lento. Arrivò alla cattedra. Si fermò. Voltò lo sguardo verso i compagni. Poi verso Lisa. Poi estrasse l’amica dalla tasca. E finalmente parlò: «Ecco ciò per cui sono venuto, prof». Jeremy spoken. E ritornò custode di ciò che era prima di diventare. Un ragazzo veramente calmo, dicono i compagni. Un ragazzo veramente educato, dicono i vicini. Diciassette gradi fuori, e silenzio dentro. Alle nove e quarantasei di un martedì mattina. E nel mezzo uno sparo. «È questo il modo in cui finisce il mondo, non con uno schianto ma con un lamento».

 

Il 3 giugno 2010, ad un peso di 29 chili, Jeremy Gillitzer è deceduto.

 

 

 

 

 

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Commenti: 10
  • #1

    Alessandro (martedì, 17 settembre 2013 15:54)

    Non ho capito l'ultimo paragrafo. Cioè, faccio fatica proprio a leggerlo...

  • #2

    Giuseppe Musolino (martedì, 17 settembre 2013 19:30)

    Fai palestra, vero?

  • #3

    Massimo (mercoledì, 18 settembre 2013 14:49)

    Alessandro, e' piu' chiaro che vedere un cortometraggio.
    ...
    Semplicemente ognuno ha le proprie debolezze e fragilita'. Nel momento in cui vengono a mancare delle sicurezze in cui trovar rifugio quali la presenza,l'affetto, di una persona cara ed un punto di riferimento (obiettivo) cui chiedere aiuto (come in questo caso ''sarebbe dovuto essere'' anche e soprattutto l'ospedale) viene a crollare tutto...
    Una vita si e' dissipata nell'aria e nessuno ha fatto nulla per cercare di impedirlo , a nessuno importava. Cio' e' triste.
    Il comportamento di Jeremy e' stato frutto e conseguenza di un contesto malsano,orrido. La famiglia non ha fatto niente, i medici nemmeno. I referti,eppure, parlavano chiaro...

    Mi piacerebbe sapere la tua personale opinione, Giuseppe, sull'ultima frase.
    Complimenti , ribadisco, per il lavoro.

  • #4

    Giuseppe Musolino (mercoledì, 18 settembre 2013 15:05)

    Per fortuna c’è ancora qualcuno che non mi fa cadere completamente le braccia per terra.

  • #5

    Alessandro (mercoledì, 18 settembre 2013 16:34)

    Che c'entra che faccio palestra? In ogni caso, a giudicare dalla foto piazzata in bella vista nella home-page, ne faccio, ne ho fatta e ne farò assai meno di Lei, dottore.

    Mi riferisco proprio alla scrittura dell'ultimo paragrafo. Che cerca l'effetto stilistico-narrativo, a discapito della chiarezza espositiva. Massimo, non mi serve spiegato il senso della storia di Jeremy, del suo dramma personale, che è chiarissimo - e ringrazio il dottore per avermi permesso, con questo accorato articolo, di entrarvi in contatto.

    Nello specifico, non capisco che ci facesse a scuola, visto che è morto a 38 anni.

  • #6

    Giuseppe Musolino (venerdì, 20 settembre 2013 16:07)

    Lo vedi che non è chiarissimo per niente? Ne approfitto per spiegarlo definitivamente, perché anche Massimo ne ha colto il significato generale ma c’è dell’altro.

    Nel paragrafo faccio riferimento in realtà a due Jeremy. Il soggetto “che va a scuola” è ispirato al Jeremy della canzone omonima dei Pearl Jam, che nulla ha a che vedere col Jeremy anoressico dell’articolo. Il comune denominatore tra i due (oltre al nome) è il senso di disagio per la vita.

    Infatti, come si può apprendere anche da Wikipedia, quello dei Pearl Jam (Jeremy Wade Delle) era un ragazzino «descritto dai compagni di scuola come "veramente calmo" e conosciuto per "fingersi triste". Dopo essere venuto a lezione in ritardo quella mattina, a Delle fu chiesto di recarsi in segreteria per avere un permesso. Lasciò la classe e ritornò con un revolver 357 Magnum. Delle camminò di fronte alla classe e disse: "Professoressa, ecco ciò per cui sono realmente venuto". Si mise la canna dell'arma da fuoco in bocca e premette il grilletto prima che la sua insegnante o i compagni di classe potessero reagire. Una ragazza chiamata Lisa Moore, la quale conosceva Jeremy grazie al programma scolastico di sospensione, dichiarò che aveva letto dei suoi appunti nei quali scriveva che avrebbe voluto parlare delle sue cose e della sua vita, mentre un lunedì scrisse ciò che stava per compiere, ma la ragazza non immaginava potesse accadere realmente».

    Lo stesso Eddie Vedder ha spiegato: «[L'idea] viene da un paragrafo su un giornale il cui senso era: ti uccidi e fai un grande vecchio sacrificio cercando di ottenere la tua vendetta. Questo è ciò che finisci per ottenere, un paragrafo su un giornale. Diciassette gradi e nuvole in un quartiere suburbano. Questo è l'inizio del video e questa è la stessa cosa che si vede alla fine, non fa differenza... niente cambia. Il mondo continua e tu non ci sei più».

    Ecco la spiegazione dei diciassette gradi all’inizio e alla fine del paragrafo.

    Allo stesso modo Jeremy Gillitzer aveva difficoltà con il mondo e anche lui ha fatto una scelta simile all’altro Jeremy. Due suicidi: uno rapido con un colpo di pistola, l’altro lento lasciandosi morire di fame.

    Lo so che il paragrafo non è di semplice comprensione al primo impatto, ma sarebbe bastato indagare sull’origine della foto del ragazzo con una pistola in bocca per capire che era la copertina del singolo dei Pearl Jam, e da lì risalire alla storia.

    Ancora, il titolo “Un giorno ideale per i pescibanana” è tratto dall’omonimo racconto di Salinger, in cui si coglie la freddezza di un rapporto madre/figlia e il senso di isolamento del protagonista che anche lì alla fine si suicida: «Fece scattare fuori il caricatore, lo guardò, tornò a infilarlo nell’arma. Tolse la sicura. Poi attraversò la stanza e sedette sul letto libero; guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo nella tempia destra».

  • #7

    Alessandro (venerdì, 20 settembre 2013 18:04)

    Grazie per la delucidazione. Immaginavo il motivo della mia difficoltà nella comprensione dell'ultimo paragrafo era la mancanza di riferimenti di qualche tipo. Lo immaginavo per via della natura "stilizzata" del paragrafo stesso, e per il fatto che, avendo letto gran parte dei suoi articoli, mi sono fatto un'idea del suo stile (intertestuale). È questa la ragione per la quale ho esternato la mia perplessità.

    Ciò che non era "chiarissimo" era appunto questo ultimo paragrafo, là dove l'intervento di Massimo tendeva a illustrarmi il senso generale della storia e del dramma di Jeremy. Quello non mi è sfuggito, non mi riferivo ad esso nel mio commento e non servivano spiegazioni in merito.

  • #8

    Massimo (sabato, 21 settembre 2013 03:28)

    Vero! Ricordo che quando Giuseppe pubblicó l articolo si parló con un collegamento coi Pearl Jam... Mi era sfuggito. Chiedo venia. Vorrei ,ora, capire il significato da dare ai termini SCHIANTO e LAMENTO nell ultima frase...

  • #9

    Giuseppe Musolino (sabato, 21 settembre 2013 13:57)

    Quella è una frase estrapolata da “Gli uomini vuoti” di Thomas Eliot, che infatti ho virgolettato. «È questo il modo in cui finisce il mondo, non con uno schianto ma con un lamento»: a voler definire, dopo averne intrecciato le storie, il confine tra i due Jeremy, il primo finito con uno schianto (un colpo di pistola), l’altro con un lamento (una lenta e silenziosa agonia nel digiuno).

  • #10

    Best of Lebanon (venerdì, 31 marzo 2017 11:38)

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