Dr. Giuseppe Musolino
musolino.press@email.it
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Oltre lo specchio.
“La preoccupazione per la propria immagine, è questa la fatale immaturità dell'uomo. E' così difficile essere indifferenti alla propria immagine. Una tale indifferenza è al di sopra delle forze umane. L'uomo ci arriva solo dopo la morte.”
(Milan Kundera)
APPETITE FOR DESTRUCTION
Donne che mangiano nude davanti allo specchio. Donne che architettano ogni stratagemma pur di impedirsi di mangiare. Poi arriva il conto. E il giorno che non ce la fanno più a sopportare tutte quelle privazioni, inizia dirompente il rebound: vanno a cena fuori, esagerano, tre-quattro portate, di solito, a metà della seconda stanno già male. Stomaci gonfi, senso di nausea. Conati. Notti immolate ai sensi di colpa. Risvegli protesi all’espiazione. E allora via, a bere litri d’acqua prima dei pasti per cercare la sazietà. A contare i chicchi di riso o le unità di pasta. A masticare il cibo e poi sputarlo. A rinunciare alle posate a favore di un paio di frustranti bacchette. Ad annegare nel ketchup il cibo avanzato ai propri figli, per evitare di mangiarne. A spegnere la sigaretta nella coppetta di gelato per non consumarla tutta. A riprendere a fumare appena ci si accorge di aver recuperato il normale/letale gusto del cibo. Sempre più donne non riescono a mangiare quasi più nulla perché convinte che in ogni cibo si nascondano ingredienti maligni. E quando non è così, si inventano il “cibo tossico”, ovvero autopreparato con ingredienti avariati, cosicché valichi ogni possibile tentazione di consumo. E ancora lassativi, diuretici, diet drug.
Tutto pur di rientrare in... un numero.
LA CELEBRAZIONE DELLE CONCHIGLIE
“Pulcheropatia”, il nuovo “male” è donna. Letteralmente, l’espressione (dal latino pulcher=bello e patos=dolore) significa “bellezza dolorosa”: ci si prefigge cioè il raggiungimento di un ideale di bellezza improbabile, tanto da crearsi tutta una serie di complessi, ossessioni e paranoie in merito. La pulcheropatia può così essere intesa come un’eterna lotta contro il declino della propria bellezza, naturalmente determinato dal tempo. Nonostante se ne parli ancora poco, è una condizione molto diffusa: sono sempre di più, infatti, le giovani donne che nell’intento di perseguire un ideale di bellezza irrazionale si danno alla forsennata attuazione dei piani dietetici più improbi, finendo per ricavarne unicamente dolore, angoscia e sofferenza per il mancato raggiungimento del target prefissato. E molto spesso - come nel più classico dei circoli viziosi - meno ci si avvicina all’obiettivo prestabilito, più ci si “incattivisce” con se stessi: e quindi regole sempre più ferree, privazioni sempre maggiori, recrudescenze, blocchi, chiusure, complessi, insicurezze, e ancora dolore, angoscia e sofferenza sempre più vivi.
IL DOLORE DI VENERE
Come dicevamo, il nuovo “male” è donna: non a caso, infatti, la pulcheropatia è anche detta “afrodalgia”, cioè il dolore di Afrodite (Venere nella versione greca), dea della Bellezza. In pratica, si tratta di una sorta di Complesso di Adone inverso e al femminile: mentre nella versione maschile (il Complesso di Adone, appunto, altrimenti detto “bigoressia”) si ricercano le massime dimensioni muscolari, nella pulcheropatia si brama la magrezza più estrema. Una magrezza non assoluta, però, come l’anoressia, ma ben inquadrata: c’è cioè un numero (chili, centimetri, taglie) da raggiungere per poter soddisfare il proprio io. Dieta a parte, l’ossessione rende talmente vulnerabili all’estetica che molte donne arrivano al punto di indossare ugualmente un capo di abbigliamento (abiti, biancheria, scarpe) con la misura agognata, anche se questa non è la propria. Comprimendosi. Strizzandosi. Torcendosi. Gemendo. Vite sprecate a riunire pezzi rubati ad altre vite sprecate.
LA MORTE TI FA BELLA
Il fenomeno può essere considerato l’anticamera della forma prima di tutte le magrezze, l’anoressia, che va però necessariamente distinta dalla pulcheropatia perché, al contrario di questa, non ricerca un ideale di magrezza, individuabile magari in un certo numero di chili sulla bilancia o in una determinata taglia, ma unicamente un peso corporeo che sia il più basso possibile - e che non viene mai ritenuto dal soggetto abbastanza basso. O meglio, un modello (non numerico, però) di peso corporeo c’è anche nell’anoressia, ma, poiché il soggetto anoressico continua a vedersi sempre “grasso”, questo ideale viene spostato sempre più in basso, fino a renderlo pari al nulla, al punto che l’obiettivo ultimo della vittima diviene la totale “estinzione” di ogni grammo di carne, grasso, muscolo. Ergo, la morte.
Fig. 1 L’anoressia è antitetica al body building, ma entrambi ricevono attestazioni di repulsione estetica. Qualcuno può però reputare Monica Brant (Miss Olympia fitness, a destra nell’immagine) esteticamente “repellente”?
SENZA FILTRO
Indubbiamente, certi modelli mediatici hanno influito non poco sulla celebrazione della magrezza, determinando stili di vita profondamente insani e surclassando largamente etica e buon senso. Così, è evidente come la moda stia da tempo proponendo (imponendo?) un modello unico e universale di femminilità, che sembra voler raggruppare sotto un unico comune denominatore tutti gli esseri femminili del pianeta. E molte adolescenti, sentendosi tagliate fuori da quel mondo in cui vorrebbero invece fortemente entrare, finiscono per vivere una condizione di disagio e di inadeguatezza, che le spinge sempre più in fretta in quella spirale di angoscia già citata.
Rispetto all’anoressia, la pulcheropatia è molto più strettamente connessa al settore della moda e da questo fortemente influenzata. Tuttavia, alla base di ogni condizione psicopatologica devono gioco forza essere presenti altri importanti moventi, soprattutto familiari e ambientali. A conferma di ciò, è da rimarcare come tra il mezzo (tv, riviste, internet) e l’utente (specie se minorenne) manchi un “filtro” che vagli le informazioni e assorba parte di quell’evidente divario culturale che attualmente li separa. Filtro che dovrebbe far parte del nostro bagaglio culturale e che invece non ci viene fornito né in famiglia né in altri ambiti, primo fra tutti la scuola.
AL DI LÀ DEL PRINCIPIO DEL PIACERE
Freud lo aveva già ipotizzato: esistono profonde interconnessioni tra cibo e piacere. Difatti, una donna su due ammette che mangiare dà più piacere del sesso. Oggi, anche la ricerca scientifica conferma questi dati: nel cervello è presente un organo, il centro Accumbens (chiamato “centro del piacere”), che, preposto appunto alla percezione della gratificazione, indirizza il nostro comportamento verso le attività finalizzate al raggiungimento del piacere (1), come procurarsi il cibo o accoppiarsi. Un tale comportamento viene rilevato ad esempio nel binge per gli zuccheri. Così, si assiste ad una vera e propria “cascata della gratificazione”: condizione di digiuno, attivazione centro Accumbens, inizio attività finalizzate al piacere (esempio, ricerca di cibo - specie zuccheri), alimentazione, aumento livelli serotonina, senso di gratificazione, inibizione del senso di fame. Non a caso, quando sono innamorate, le donne perdono l’appetito. Non a caso, i nostri momenti più importanti sono sempre celebrati da lauti banchetti. Non a caso, il “piacere finale” offerto ai condannati a morte è quello di un ultimo pasto (l’ultima cena).
Livelli troppo alti di serotonina nel cervello, però, potrebbero condurre a comportamenti nutrizionali “perversi” (come quelli sopra osservati). A quel punto, il soggetto tenterebbe (inconsciamente) di porre rimedio limitando l’assunzione di cibo - perché perdere peso, effettivamente, riduce i livelli del neurotrasmettitore. In seguito a ciò viene così a crearsi una condizione di malessere e depressione (2), che finisce spesso per generare la strutturazione di personalità ossessive e iperperfezioniste. La condizione finale che ne deriva è definita "Reward Deficency Sindrome", una sindrome da deficit della percezione delle gratificazioni, con la necessità di stimoli sempre nuovi, fuori dall’ordinario e a forte contenuto emozionale (3).
THE MAGIC NUMBER
Tentiamo una verifica di quanto appena detto. Provate a chiedere a una donna quale sia la taglia femminile ideale (non la sua, quella ideale, ripeto). Gesticolerà, accavallerà le gambe, poi le braccia, poi forse anche gli occhi, “preambolerà”, finchè ammetterà un franco “42”. Provate subito dopo a chiederle quale sia la percentuale di grasso corporeo ideale sempre per una donna. Niente, eh? C’è poco da fare, l’influenza ambientale ha il suo bel peso sulla nostra cultura. Me ne accorgo ogni qualvolta mi trovi ad “anamnesizzare” una donna dal mio pulpito di dietista: l’universo muliebre soccombe alla dura legge del “42”.
Uno degli esempi più fulgidi del peso delle interazioni ambientali sul modo in cui le donne concepiscono il cibo e il corpo viene dalle isole Fiji. Qui, fino a poco tempo fa l’alimentazione era molto abbondante, cosicché per anni l’ideale di bellezza femminile è stato un corpo boteriano: grosso (“big is beautiful”), ben oltre il concetto di florido, sicuramente fuori dagli standard occidentali. Ma è bastato che a metà degli anni 90 fossero importati serial tv tipicamente occidentali e spot esaltanti il fitness, perché la loro percezione del corpo cambiasse radicalmente. Così, in soli tre anni, il numero di ragazze fijiane a rischio di disturbi del comportamento alimentare è più che raddoppiato.
A dir la verità, però, non è tutto il mondo femminile ad essere soggiogato a questo standard. Nel suo “L’harem e l’Occidente”, infatti, la scrittrice marocchina Fatima Mernissi, definisce il mito della 42 come “l’harem delle donne occidentali”, obbligate ad una sorta di prigionia del proprio corpo che non può subire la naturale trasformazione negli anni ma deve eternamente mantenere quel suo aspetto magro, e spesso immaturo. E Fatima grida: “Allah mi ha creata come sono, come può essersi sbagliato tanto, madre?”.
Comunque, l’ambiente è un determinante di primo piano, ma non è l’unico: di fronte a certi ricorrenti casi familiari, infatti, non si può ignorare il peso dell’ereditarietà. La prova di ciò viene dai gemelli: nel caso di fratelli omozigoti (cioè con identico patrimonio genetico), qualora uno dei due abbia un problema di disordine alimentare, l’altro ne sarà quasi certamente colpito; se invece si tratta di eterozigoti, le probabilità saranno notevolmente minori.
QUEEN ON FIRE
Nel nostro Paese, i disturbi alimentari colpiscono circa tre milioni di persone. Donne, molte delle quali giovanissime, che sempre più frequentemente iniziano a seguire una dieta per raggiungere un ideale estetico spesso altamente utopistico, ma percepito come l’unico possibile (da dati ufficiali, il 60% delle teen-ager italiane tra i 12 e i 14 anni ambisce ad uno status di magrezza e per questo si è già sottoposto a diete, spesso stilando autonomamente la propria alimentazione, senza consultare alcun dottore). Così, dopo l’allarme anoressia scattato in tutto il mondo per la morte di giovani top model anoressiche, da Bruxelles arriva una proposta di legge che potrebbe far sparire per sempre il concetto di “taglia” dagli abiti femminili: sostituire questo con quello relativo alle ben più importanti misure in centimetri di vita, fianchi e busto.
Qui da noi, invece, il Ministero per le politiche giovanili ha da poco elaborato un “Manifesto di autoregolamentazione”, volto a regolamentare il mondo della moda e a rivalutare un modello di bellezza “sano” (“mediterraneo”). Nel dettaglio, l’obiettivo è quello di tutelare la salute delle modelle, avanzando a queste l’esibizione di un certificato medico basato su una valutazione che tenga conto dei criteri scientifici e diagnostici in materia di disordini alimentari: di conseguenza, si intende proibire la passerella alle modelle dal cui certificato medico si evincesse la presenza di un disturbo alimentare conclamato. In questo modo, si spera di poter creare un nuovo e più salutare target estetico, il cui perseguimento, da parte soprattutto delle adolescenti, non esponga queste a possibili problematiche di salute, fisica e psichica. La proposta potrebbe rivelarsi anche proficua, ma c’è da tenere conto che questi nuovi dettami dovranno essere condivisi da una popolazione molto numerosa ed eterogenea (stilisti, agenzie di modelle, fotografi, make-up artist ecc.), ognuno con i propri interessi.
Che dire, forse la soluzione più efficace è da tempo racchiusa nella psicoanalisi freudiana, fonte battesimale dei concetti di pulsione di autodistruzione: “Così come si provocano o si esagerano i dolori dando loro importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie l’attenzione”. Meno fuoco ad un mondo già incendiato, così che questo attragga meno chi non abbia la forza di resistere al fascino delle fiamme.
BIBLIOGRAFIA
1. Zuckerman M, The psychophysiology of sensation seeking, Journal of Personality, 58, 313-345, 1990.
2. Schuckit MA et al, Selective genotyping for the role of 5-HT2A, 5-HT2C, and GABA alpha 6 receptors and the serotonin transporter in the level of response to alcohol: a pilot study. Biol Psychiatry, 45(5), 647-651, 1999.
3. Blum K et al, Reward deficiency syndrome: a biogenetic model for the diagnosis and treatment of impulsive, addictive, and compulsive behaviours, J Psychoactive Drugs, 32 Suppl:i-iv, 1-112, 2000.