L'ALBA DELLA NUTRIZIONE


Immaginate questo scenario. Africa, Rift Valley, area dell’attuale Kenya. Qualche milione di anni fa. Le temperature aumentano. Le risorse alimentari cominciano a scarseggiare. Homo deve muoversi, spostarsi per andare alla ricerca di cibo.

 

Giorni e giorni di caccia senza esito. Giorni e giorni di cammino senza cibo. Paleodieta significa anche questo: giorni e giorni di semi-digiuno, in cui ci si alimenta solo di verdure, foglie, erbacce, qualche noce; fino a 12 pasti di questo tipo al giorno per più giorni, altro che le 5 porzioni di frutta e verdura raccomandate oggi! 

 

In questo lasso di tempo, il suo corpo ha imparato a tirare avanti con un po’ di neoglucogenesi, ma soprattutto con le fibre rosse e l’ossidazione dei grassi che si trovano in esse. Stratagemma per risparmiare le bianche e il loro glicogeno. 

Il suo compagno di avventura, con meno fibre rosse e meno grassi da utilizzare, si è giocato quasi tutto il suo glicogeno e dopo qualche giorno è stremato, comincia a dare segni di cedimento. Resta indietro. La vita è dura, e l’altro è costretto a lasciarlo. Non si rivedranno più. Morirà. D’inedia o sbranato da qualche belva, poco importa, sarà fatto fuori dall’ambiente. Era una zavorra per l’evoluzione.

 

A un certo punto, l’Homo superstite incontra il cibo: la preda. È grossa. Ci deve lavorare, ci deve combattere. Ora le fibre rosse non servono più, possono tirare il fiato. Ha bisogno di mezzi più rapidi. Le fibre bianche gli consentono di sferrare l’attacco. Colpi rapidi, sotto l’azione brutale dell’adrenalina che “rompe” il glicogeno. ORA serve l’anaerobico alattacido. Ora sì che è il momento del “Fight AND Flight”, perché le due cose non necessariamente sono separate: cinque-sei colpi, e poi l’allontanamento, la messa in salvo per tirare il fiato. Due-tre minuti di recupero. Ancora un nuovo attacco e poi via, a ripararsi. A preda uccisa e pericolo scampato, Homo trascina il “bottino” al sicuro e lì può finalmente riposare e mangiare. Carne per rimpolpare i propri muscoli ne ha a sufficienza; per il glicogeno troverà qualche bacca, qualche frutto selvatico, e in un paio d’ore al massimo lo avrà ricaricato. Dopo essersi rimpinzato fino a scoppiare, Homo sprofonda nel sonno. Al risveglio lo aspetteranno ancora dei giorni di riposo e cibo, dopodichè esaurita di nuovo ogni fonte alimentare, la fame lo riandrà a trovare, costringendolo a rimettersi in cammino. E il ciclo si ripeterà. 


Ciclo su ciclo, anno dopo anno, millennio dopo millennio, queste abitudini hanno finito per sviluppare un gene (il PPARδ: Peroxisome Proliferator-Activated Receptor) che consentisse ai successori di Homo un migliore adattamento all’ambiente “ostile”. Un gene che consentisse una maggior presenza di fibre rosse, sì da risparmiare una risorsa limitata come il glicogeno per i momenti di necessità.

Poi, quando dall’Africa Homo si muoverà emigrando verso il resto del mondo e incontrerà nuovi ambienti che richiederanno nuovi adattamenti, quel gene che gli permise di sopravvivere nella savana africana servirà probabilmente sempre meno, e andrà perduto. E con esso tutti i benefici sulla salute che si portava dietro.

Altro che paradiso… 

 

 

 

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Commenti: 1
  • #1

    Hans (mercoledì, 04 aprile 2012 02:41)

    Good post dude