Indiani Pima

 

 

L’uomo non è nato con le malattie, le ha acquisite con la civiltà. Gli indiani Pima sono un esempio lampante di questo assioma. La loro storia offre un paradigma degli effetti dell’occidentalizzazione su un popolo originariamente sano.

 

Con molta probabilità, i lontani antenati dei Pima fecero parte delle prime migrazioni che circa trentamila anni fa, partendo dall’Asia nord-orientale (l’attuale Siberia), attraverso un ponte di terra ora coperto dal mare di Bering, giunsero nel nord America (l’attuale Alaska), popolando tutta la parte occidentale del continente (fig. 1). [1, 2]

 

Gli odierni indiani Pima sono i diretti discendenti di quel gruppo Paleo-Indiano [2] e non appartengono allo stesso ceppo di altre tribù più note, come i Navaho e gli Apache, i cui antenati arrivarono in una successiva onda di migrazione nella parte sud-occidentale degli odierni Stati Uniti solo 600-700 anni fa. [3]

 

Verso il 7000 aC, con la fine delle grandi glaciazioni e l’instaurarsi di un clima più caldo e asciutto, queste popolazioni passarono dalla caccia a praticare un’agricoltura arcaica. Infine, circa duemila anni fa si stanziarono nelle valli dei fiumi Salt e Gila, nel deserto dell’Arizona centrale. [1]

 

 

 

Conoscevano le tecniche irrigue e oltre a coltivare erano dediti alla raccolta di prodotti selvatici. Vivevano sotto semplici ripari di fango e rami, che venivano posti sopra una leggera depressione del terreno.

 

Con il passare del tempo, però, si resero ben presto conto che la stagione proficua per i lavori agricoli coincideva con le secche dei fiumi della zona. Iniziarono alloraa costruire un avanzato sistema di irrigazione per deviare l’acqua del fiume Gila e dei sui tributari , in modo da irrigare i campi e i loro raccolti. Un’opera altamente ingegnosa per i tempi.

 

Questo popolo seppe dunque adattarsi molto bene alla vita del deserto, trasformando quella sterile area in una terra molto fertile e ricca di vegetazione. 

 

Per anni i Pima sussisterono di duro lavoro fisico, di agricoltura, caccia e pesca, alternando periodi di grande abbondanza di cibo ad altri di carestia.

 

Col tempo le abitazioni presero forma di capanne, chiamate holas-ki, senza finestre, con pareti di canne ricoperte di fango o argilla ed una forma  simile ad un bricco capovolto, con una porta (rivolta sempre verso oriente perchè, non essendovi finestre, la porta era l’unico ingresso per il sole al mattino) talmente bassa che per entrare bisognava mettersi carponi.

 

I Pima vivevano in stretto contatto con la natura, sfruttandone le risorse per nutrirsi e per vestirsi. [4] Da un esemplare racconto di uno di quegli indiani dell’epoca [5], si possono apprendere alcune delle abitudini di questa popolazione.

 

Essi non distinguevano la domenica da qualunque altro giorno della settimana, ma conoscevano le stagioni e quindi sapevano quando era il momento giusto per seminare. Così, ogni giorno, dopo una colazione frugale, tutti (tranne poche donne che restavano a casa con i bambini) si recavano nei campi per la semina oppure partivano per la caccia. 

 

Raramente facevano il pasto di mezzogiorno e si limitavano a consumare nel primo pomeriggio un po’ di sciroppo di cactus con un pane di mesquite, detto chu’i.

 

Una pratica tradizionale era ad esempio quella di tritare in un mortaio dei vi-hog (fagioli di mesquite), fino a ridurli in polvere, che veniva poi messa in una tazza di argilla, spruzzata d’acqua e quindi coperta con un panno umido per farla asciugare e diventare una sorta di dolce, un pezzettino del quale spesso bastava a nutrire un Pima per una giornata intera.

 

Il pasto serale aveva luogo quando tutti gli uomini rientravano dal lavoro nei campi o dalla caccia, ed era perlopiù composto dalla selvaggina catturata.

 

Periodicamente, alcuni membri della popolazione partivano (a piedi) per andare a Phoenix a comprare i generi di prima necessità che non producevano: quel viaggio durava tre giorni, durante i quali si accampavano per la notte sotto i pioppi del Salt River.

 

Tutto ciò dà un’idea di quanto attiva fosse la loro vita e di quanto parca fosse la loro dieta in quell’epoca.

 

Quando non andavano al lavoro nei campi, i Pima praticavano spesso la caccia, a cavallo o a piedi. Erano ottimi corridori, sempre attivi e raramente si ammalavano. Molti superavano i cento anni di età. Come si apprende sempre dal racconto di uno degli stessi Pima, “fino all’arrivo dell’uomo bianco non si conoscevano malattie”. [5]

 

La loro esistenza era dunque semplice e primitiva, tutto sommato tranquilla nonostante le continue razzie degli ostili Apache, più portati al conflitto per ragioni di sopravvivenza. Ma la minaccia degli Apache era niente al confronto di quello che li attendeva.

 

Nel tardo diciannovesimo secolo, infatti, i colonizzatori deviarono l’acqua dei fiumi per loro propri scopi agricoli, tagliando fuori i campi dei Pima, che quindi inaridirono. Gradualmente fu poi costruita una serie di dighe, sufficiente a ripristinare l’acqua per il popolo, ma inadeguata al loro stile di vita agricolo. [1]

 

I Pima rimasero così completamente senza acqua per irrigare i campi, abbeverare il bestiame o addirittura per bere essi stessi, e ciò determinò un brusco ed improvviso cambiamento nella loro economia, nel modo di vivere, nell’alimentazione e nel livello di attività fisica. [6]

 

Il bestiame cominciò a morire, i campi furono bruciati dal sole e i Pima si ritrovarono a vivere nel deserto, praticamente abbandonati a morire di fame e di sete. Si spostarono allora nei dintorni della città di Phoenix (dove la maggior parte dei Pima superstiti vive ancora),  e per sopravvivere furono costretti ad accettare i prodotti che offrì loro il governo americano.

 

E fu la fine.

 

Il governo prese a inviare ai Pima generi alimentari tipicamente occidentali, ricchi di grassi e carboidrati semplici (zucchero, farina bianca, lardo), lontani anni luce dai tipici alimenti consumati fino a quel momento dagli indiani. Fino ad allora, infatti, la tradizionale dieta Pima era stata povera di grassi e ricca di fibre e di carboidrati complessi (70-80% carboidrati, 8-12% grassi e 12-18% proteine). [7, 8]

 

La transizione verso una dieta “moderna”, ricca di grassi e zuccheri e povera di fibre, si inserì in un genoma insulino-resistente per via della scarsa presenza fino a quel momento di carboidrati nella dieta. Ciò finì per aumentare l’incidenza dell’obesità [7, 8, 9], che portò a ulteriore sviluppo dell’insulino-resistenza [10], condizioni fino ad allora sconosciute a quel popolo. 

 

Inoltre, ai marcati cambiamenti nella dieta si associò una notevole diminuzione nel livello di attività fisica [11]: dall’essere coltivatori, cacciatori e pescatori (quindi sempre in movimento), i Pima si ritrovarono a condurre una vita molto più sedentaria, finendo per implementare il dilagare di quei nuovi fenomeni metabolici.

 

Conseguenza inevitabile, nel 1963 la comunità fu massicciamente colpita dal diabete mellito di tipo 2 (DM2). [1] Un ricercatore che ebbe modo di osservare la popolazione disse: “Non era raro trovare adulti che pesavano oltre 230 chili, uomini ancora giovani che già soffrivano di diabete, e donne con segni evidenti della malattia, come la cecita', costrette da anni alla dialisi”.

 

Si narra che una volta degli indiani entrarono in un ristorante per mangiare. Erano affamati, e divorarono letteralmente ogni portata. Nel tavolo accanto sedevano dei bianchi, uno dei quali, dopo aver assistito alla scena disse: “Vorrei avere l’appetito di questi indiani!”. Un indiano lo udì ed esclamò: “Accidenti! Vi siete presi la nostra terra, vi siete presi la nostra acqua, ora volete anche il mio appetito. Perché mai?!”.

 

Oggi, i Pima dell’Arizona sono il popolo con la più alta prevalenza riportata al mondo di DM2.Più della metà dell’attuale popolazione adulta (sopra i 35 anni) ne è affetta [12, 13]; circa il 65% è sovrappeso-obeso [14] econsiderevoli sono anche altre malattie croniche. [3]

 

La mortalità per complicanze indotte dal diabete (principalmente nefropatia diabetica ed ischemia cardiaca) è elevatissima. [15, 16] 

 

Attualmente, i Pima sono mescolati con le popolazioni vicine e della loro arcaica cultura rimangono solo alcuni nomi, certe leggende e i riti che si tramandano nei piccoli villaggi agricoli ancora presenti. Il loro stile di vita è totalmente occidentalizzato: contrariamente agli indiani che vivono nelle “Reservations”, che in molti casi versano in condizioni di miseria e di disoccupazione, ogni membro Pima ha spesso un lavoro che consente un benessere consolidato.

 

L’esperienza di questi indiani è la conferma di come in una società il passaggio da un’economia di scarsità ad una di abbondanza possa lasciare campo libero alle malattie correlate allo stile di vita. [17]

 

Ma gli indiani dell’Arizona non sono gli unici Pima oggi esistenti. Resiste infatti un altro gruppo che vive in un piccolo villaggio del Messico nord-occidentale, tra le montagne della Sierra Madre.

 

Dati archeologici e linguistici indicano che questi individui sono Pima come quelli dell’Arizona, separatisi da quel gruppo originario nella preistoria indo-americana (circa 700-1000 anni fa). [14, 24]

 

Esistono tuttavia notevoli differenze di stili di vita tra i due gruppi. Contrariamente ai “cugini” dell’Arizona, infatti, i Pima messicani (Maycoba) vivono a 1600 metri sopra il livello del mare, isolati dalle influenze occidentali da quelle frastagliate montagne che loro chiamano “casa”.

 

Anche oggi, la maggior parte degli abitanti del paese conduce un’esistenza basata sull’agricoltura tradizionale, sull’allevamento del bestiame e sul lavoro di falegnameria: privi di mezzi meccanici, continuano a faticare. I loro raccolti sono piantati su campi in pendenza, che richiedono un lavoro alquanto impegnativo. Non c’è elettricità o acqua corrente nelle loro sedi e devono percorrere lunghe distanze per prendere acqua potabile o per lavare i loro vestiti. Per lo stesso motivo, non dispongono di mezzi elettrici per cucinare, per cui la preparazione degli alimenti e lo svolgimento delle faccende domestiche richiedono uno sforzo supplementare, in modo particolare delle donne. [14]

 

Rispettando le loro antichissime tradizioni, la dieta dei Maycoba ricorda quella primordiale dei Pima: alta in carboidrati complessi, ricca in fibre, bassa in grassi saturi, ottimale nel rapporto polinsaturi/saturi. E come quegli antichi Pima, anche i messicani si mostrano ancora sani e magri.

 

Per valutare l’effetto dei fattori ambientali e genetici sulla prevalenza del DM2 e sull’obesità in questo popolo, si iniziò allora a studiarlo, scoprendo dati molto interessanti.

 

Alcuni studi sulla dieta dei Pima hanno mostrato maggiori assunzioni caloriche nei Maycoba [28], ma l’assunzione lipidica nel totale calorico giornaliero è risultata minore per questi ultimi, così come pure l’apporto di fibre [22, 23] e quello di colesterolo. Anche il rapporto grassi polinsaturi/saturi era più favorevole ai messicani.

 

Così, confrontando lo stato di salute dei due gruppi, è emerso chiaramente il primato negativo degli Arizona Pima sotto tutti i punti di vista. [4]:

 

  1. minor tolleranza al glucosio (accertata attraverso relativo test orale);
  2. maggior presenza di soprappeso-obesità; [24]
  3. minor dispendio calorico ed un minor livello di attività fisica; [14, 24, 25]
  4. maggior livello ematico di colesterolo totale; [14]
  5. maggior BMI medio e maggior presenza di DM2 [26, 27] (solo due donne e un uomo fra i Maycoba esaminati presentavano il DM2 [14]).

 

Da tutti questi dati è dunque emerso in modo nitido che, malgrado un uguale potenziale genetico di partenza, l’esposizione a differenti stili di vita può determinare profondi mutamenti metabolici anche nella stessa popolazione.

 

In modo particolare, l’esperienza dei Pima ha sancito in maniera inequivocabile come un’alimentazione con meno grassi animali, più carboidrati complessi, più fibre ed un maggior livello di attività fisica [11], possa preservare da malattie quali quelle cardiovascolari, l’obesità ed il DM2. [28]

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

1. Pratley RE, Gene-environment interactions in the pathogenesis of type 2 diabetes mellitus: lessons learned from the Pima Indians, Proc Nutr Soc, 57 (2), 175-181, 1998.

 

2. Bennett PH, Type 2 diabetes among the Pima Indians of Arizona: An epidemic attributable to environmental change? Nutr Rev, 57 (5 Pt 2), S51-4, 1999.

 

3. Knowler WC et al, Diabetes Mellitus in the Pima Indians: Incidence, Risk Factors and Pathogenesis, Diabetes/metabolism Rev, 6, 1-27, 1990.

 

4. Valencia ME, Bennett PH, Ravussin E, Esparza J, Fox C, Schulz LO, The Pima Indians in Sonora, Mexico, Nutr Rev, 57 (5 Pt 2), S55-7, 1999.

 

5. Webb G, In: A Pima remembers, The University of Arizona Press, Tucson (Arizona), 1959.

 

6. Rising R et al, Determinants of total daily energy expenditure: variability in physical activity, Am J Clin Nutr, 59, 800-804, 1994.

 

7. Swinbum BA, Boyce VL, Bergman RN, Howard BV, Bogardus C, Deterioration in carbohydrate metabolism and lipoprotein changes induced by modem, high fat diet in Pima Indians and Caucasians, J Clin Endocr and Metab, 73, 156-165, 1991.

 

8. Boyce VL, Swinburn BA, The traditional Pima Indian diet. Composition and adaptation for use in a dietary intervention study, Diabetes Care, 16 (1), 369-371, 1993.

 

9. Price RA, Charles MA, Pettitt DJ, Knowler WC, Obesity in Pima Indians: Large increases among post-World War I1 birth cohorts, American Journal of Physical Anthropology, 92, 473-479, 1993.

 

10. Bogardus C, Lillioja S, Mott DM, Hollenbeck C, Reaven G, Relationship between degree of obesity and in vivo insulin action in man, American Journal of Physiology, 248, E286-E29 1, 1985.

 

11. Kriska AM, LaPorte RE, Pettitt DJ, Charles MA, Nelson RG, Kuller LH, Bennett PH, Knowler WC, The association of physical activity with obesity, fat distribution and glucose intolerance in Pima Indians, Diabetologia, 36, 863-869, 1993.

 

12. King H, Rewers M, Global estimates for prevalence of diabetes mellitus and impaired glucose tolerance in adults, Diabetes Care, 16, 157-177, 1993.

 

13. Knowler WC et al, Obesity in the Pima Indians: Its Magnitude and Relationship with Diabetes, Am J Clin Nutr, 53 (1543), S51, 1991.

 

14. Ravussin E, Valencia ME, Esparza J, Bennett PH, Schulz LO, Effects of a traditional lifestyle on obesity in Pima Indians, Diabetes Care, 17 (9), 1067-74, 1994.

 

15. Sievers ML, Nelson RG, Bennett PH, Sequential trends in overall and cause-specific mortality in diabetic and non-diabetic Pima Indians, Diabetes Care, 19, 107-111, 1996.

 

16. Sievers ML et al, Impact of NIDDM on Mortality and Causes of Death in Pima Indians, Diabetes Care, 15, 1541-1549, 1992.

 

17. Nestle M, Animal v. plant foods in human diets and health: is the historical record unequivocal?, Proc Nutr Soc, 58 (2), 211-218, 1999.

 

18. Niswander JD et al, Population Studies on Southwestern Indian Tribes. I. History, Culture, and Genetics of the Papago, Am J Hum Genet, 22, 7-23, 1969.

 

19. Esparza J et al, La diets pima en Sonora, Mexico: un posible factor de proteccion contra la diabetes tipo 2. XII Congreso de la Societad Latinoamericana de Nutricion "Dr. Abraham Horwitz, Guatemala, CA, 1997.

 

20. Smith CJ et al, Survey of the diet of Pima Indians using quantitative food frequency assessment and 24-hour recall, J Am Diet Assoc, 96, 778-784, 1996.

 

21. Schulz LO et al, Obesity, Diet and Physical Activity of Pima Indians in Mexico. 16th International Congress of Nutrition, Abt Pt 127, 1997.

 

22. Kriska AM et al, Development of Questionnaire to Examine Relationship of Physical Activity and Diabetes in Pima Indian, Diabetes Care, 13, 401-411, 1990.

 

23. Fox C et al, NIDDM and obesity in Mexican Pima Indians, Diabetes 46 (Suppl 1), 19A, 1997.

 

24. Valencia ME et al, Non-insulin-dependent diabetes mellitus and obesity in Mexican Pima Indians, Diabetologia, 40 (Suppl 1), A16, 1997.

 

25. Esparza J et al, Daily energy expenditure in Mexican and USA Pima indians: low physical activity as a possible cause of obesity, Int J Obes Relat Metab Disord, 24, 55-59, 2000.

 

26. Neel JV, Diabetes Mellitus: a “thrifty” genotype rendered detrimental by “progress”?, Am Journ Hum Genet, 14, 353-362, 1962.

 

27. Neel JV, The thrifty genotype revisited, In: Kobberling J, Tattersall R (eds), The Genetics of diabetes mellitus, Academic Press, Amsterdam, 137-47, 1982.

 

28. Neel JV, The “thrifty genotype” in 1998, Nutrition Reviews, 57 (5 Pt 2), S2-9, 1999.

 

 

 

 

 

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Commenti: 4
  • #1

    Alessandro (mercoledì, 09 ottobre 2013 19:12)

    Ottimo articolo. Altro che lungo, l'ho letto in un attimo. Mi sorge un dubbio. Questi studi forniscono dei risultati relativi a gruppi sociali: come possiamo applicare tali risultati al singolo individuo? Mi spiego meglio. Se è vero che questi studi dimostrano come nel determinare l'obesità fattori relativi a stile di vita e alimentazione prevalgono su fattori genetici in merito ad un gruppo sociale, se ne deducono *automaticamente* considerazioni per il singolo individuo e per la differenza tra singoli individui (dello stesso gruppo)?

  • #2

    Giuseppe Musolino (giovedì, 10 ottobre 2013 00:22)

    Senz’altro, il discorso vale anche per il singolo. Il gene deputato allo stoccaggio del grasso è presente in ognuno di noi, in proporzioni diverse ma presente. La sua attivazione dipenderà esclusivamente da profondi cambiamenti nello stile di vita, come dimostrato da molti soggetti appartenenti a popolazioni tribali estratti dal proprio habitat e convertiti a un’alimentazione di tipo moderno: obesità, diabete e ipertensione sono infatti raramente riscontrate nelle tribù primitive che ancora vivono nel proprio ambiente, mangiano secondo loro tradizioni e praticano intense attività lavorative per sostentarsi.

  • #3

    Aldo (domenica, 20 agosto 2017 11:25)

    Buongiorno e grazie.
    Su Wikipedia, naturalmente, a proposito dei Pimas e del loro triste, attuale primato si sostiene che la loro reazione alla sciagurata dieta americana sia in realtà dovuta semplicemente a particolari caratteristiche genetiche che li renderebbero più vulnerabili.
    È un dato in qualche modo smentibile?

    Molte grazie

  • #4

    Giuseppe Musolino (domenica, 20 agosto 2017)

    È contestabile attraverso due osservazioni. La prima è che questa genetica, se anche presente, è rimasta silente fino all’epilogo americano; quindi, se avessero continuato con il loro stile di vita, molto probabilmente sarebbero ancora sani e in forma. E questo è confermato dalla seconda osservazione, cioè quella relativa ai “cugini” Pima della Sierra Madre: stessa genetica, nessuno stravolgimento metabolico continuando con il loro stile di vita rurale.