Il gene risparmiatore

 

 

Per spiegare il paradosso Pima, nel 1962 il geneticista Neel ipotizzò la teoria del “thrifty gene” (gene frugale) [1].

 

Secondo questa, in tempi remoti l’insulino-resistenza avrebbe conferito un vantaggio selettivo a popolazioni come quella dei Pima (allora cacciatori-raccoglitori), in quanto risparmiava glucosio per il cervello durante i lunghi digiuni.

 

Così, popoli che per centinaia o migliaia di anni hanno vissuto nei campi sussistendo di caccia e pesca e alternando periodi di “banchetti” ad altri di carestie, per adattarsi a questi estremi cambiamenti calorici avrebbero sviluppato un genotipo con efficienza metabolica parsimoniosa ed elevata capacità di sopravvivenza.

 

Tale gene avrebbe permesso loro di stivare grasso durante il periodo di abbondanza, così da avere sufficienti scorte durante il tempo di carestia. Con l’approvvigionamento di generi alimentari costante garantito dal progresso, il gene sarebbe però divenuto nocivo e, in periodi di abbondanza calorica, il vantaggio si sarebbe trasformato in un rischio di sviluppare obesità e diabete

 

Tale ipotesi, però, già rivista nei primi anni Ottanta dallo stesso Neel [2], avrebbe una limitata applicabilità etnica [3]. Il gene “frugale” sarebbe infatti presente nelle varie etnie in percentuali diverse (indiani Pima 48%, aborigeni australiani 48%, micronesiani 20%, europei 4-6%).

 

Perciò si potrebbe pensare che un genotipo diverso da quello Pima svilupperebbe meno obesità/diabete se esposto ad un’uguale differenza ambientale nello stesso intervallo di tempo. Invece, anche in popolazioni geneticamente lontane dai Pima (ad esempio nel sud-est asiatico o in Oceania), la rapida occidentalizzazione ha portato a un’esplosione di obesità e di diabete

 

Perciò, lo stesso Neel è arrivato a concludere che le diverse condizioni di salute di fenotipi come quelli dei Pima non possono essere dovute ad una semplice predisposizione etnica ma devono necessariamente riflettere profondi cambiamenti nello stile di vita. [3]

 

Difatti, già in passato, osservazioni condotte sugli aborigeni australiani “modernizzati” avevano dimostrato come la reintroduzione di uno stile di vita tradizionale (soprattutto dal punto di vista alimentare) producesse un significativo calo ponderale ed un miglioramento sia del metabolismo glucidico (glicemia ed insulinemia) che di quello lipidico (colesterolo e trigliceridi). [4]

 

Per di più non andrebbe ignorato un punto fondamentale, oggi troppo spesso eluso da alcuni Autori: la composizione corporea degli uomini “antichi” era molto differente da quella odierna. Come evidenziato da Eaton [5], a parte gli odierni atleti allenati che conservano la massa muscolare di quei primi individui, l’uomo moderno, oltre che da una spesa energetica sensibilmente inferiore [6], è caratterizzato da una sarcopenia impressionante, con gli interstizi tra i muscoli ben imbottiti di grasso. [3]

 

E poiché la sensibilità insulinica è sensibilmente diversa tra cellule adipose e muscolari, la responsività complessiva all’insulina da parte del muscolo scheletrico si è profondamente negativizzata durante la transizione verso una società moderna mentre è aumentata quella del tessuto adiposo.

 

Così, obesità, diabete mellito 2 e ipertensione sono diventate “malattie della civilizzazione”, raramente riscontrate nelle popolazioni tribali il cui sostentamento è ancora garantito da intense attività lavorative svolte senza l’ausilio di mezzi meccanici, quali la caccia, il foraggio e l’agricoltura.

 

Ecco perché Eaton, poi seguito da altri, ha provocatoriamente proposto il ritorno a una sorta di periodo paleolitico, sia dal punto di vista dell’attività fisica che dell’alimentazione: più movimento, più fibre e micronutrienti (da frutta e verdura o da integrazione dietetica), meno grassi saturi e meno sodio. [7, 8] 

 

Proposta di cui come al solito non è stato affatto colto il lato provocatorio ma unicamente quello superficiale, con gente che in contesti quantomai lontani dal paleolitico sia dal punto di vista ambientale che dietetico che genetico ha preso scioccamente a basare la propria dieta su carne cruda, noci, verdura e qualche frutto. Il modo giusto per addentrarsi nell'insulino-resistenza e per ingrassare nel momento in cui si toccherà qualche zucchero in più.

Come buttare via milioni di anni di evoluzione... 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

1. Neel JV, Diabetes Mellitus: a “thrifty” genotype rendered detrimental by “progress”?, Am Journ Hum Genet, 14, 353-362, 1962.

 

2. Neel JV, The thrifty genotype revisited, In: Kobberling J, Tattersall R (eds), The Genetics of diabetes mellitus, Academic Press, Amsterdam, 137-47, 1982.

 

3. Neel JV, The “thrifty genotype” in 1998, Nutrition Reviews, 57 (5 Pt 2), S2-9, 1999.

 

4. O’Dea K, Marked improvment in carbohydrate and lipid metabolism in diabetic Australian Aborigines after temporary reversion to traditional lifestyle, Diabetes, 33 (6), 596-603, 1984.

 

5. Eaton SB, Where’s the beef? Evolution, body composition, and insulin resistance,1999.

 

6. Shimamoto T et al, Trends for coronary heart disease and stroke and their risk factors in Japan, Circulation 79:503-15, 1989.

 

7. Eaton SB, Shostak M, Konner M, The Paleolithic prescription: a program of diet and exercise and a design for livin, Harper & Row, New York, 1988.

 

8. Eaton SB, Eaton SB, Konner MJ, Paleolithic nutrition revisited: A twelve-year retrospective on its nature and implications, Eur J Clin Nutr, 51, 207-216, 1997.

 

 

 

 

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